
Eva Taylor, Carta da zucchero, Ravenna: Fernandel 2015
Miwepa
Il luogo dove sono nata non ha nome. Lo chiamavano “Miwepa”,cioè e cioè Mitteldeutsche Wellpappenfabrik che significa “fabbrica tedesco-centrale di cartone ondulato”. La fabbrica, che oggi porta il nome SCA Packaging Mivepa Gmbh si trovava su un lato della strada provinciale, circondata da un recinto altissimo dal quale emergevano le ciminiere e i tetti degli stabilimenti.
Dall’altro lato della provinciale, dove c’erano alcune case, si vedeva solo fumo, niente finestre, niente esseri umani. Di tanto in tanto il cancello si apriva e sputava fuori dei camion, la sera un autobus portava gli operai a casa, poi gente su motorini e biciclette.
La casa in cui sono cresciuta faceva parte di quel gruppo di sei piccoli edifici, in parte vecchie case contadine, in parte più recenti, costruite con i mattoni risparmiati dalla bocca.
«Ogni mattone una fetta di pane in meno, così abbiamo costruito la casa», mi diceva la nonna. «Così tuo nonno ha comprato i mattoni, pagandoli con la fame nel portafoglio».
Sentivo intorno a me i mattoni lamentarsi dalla fame come una pancia vuota.
Non avevo mai fame. Mi costringevano a stare a tavola, dovevano infilarmi a forza la minestra in bocca. Una minestra ogni due giorni, o di lenticchie o di orzo, e la domenica un brodo due giorni, o di lenticchie o di orzo, e la domenica un brodo con la pasta all’uovo fatta in casa. Ma sempre troppo grassa. Gli occhi del grasso mi guardavano dal piatto, occhi fumanti, così grossi che sembravano gli occhi di un mostro. Il mostro della fame, oppure quello della sazietà. Non lo sapevo. Sapevo solo che non li volevo dentro di me. Non volevo sentire quegli occhi fumanti, grassi, scivolare giù nell’esofago, ispezionarmi da dentro.
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